(Adnkronos) – Per molti palestinesi è l’unica persona in grado di riunire Gaza e Cisgiordania sotto una stessa leadership. Per Israele, invece, la sua libertà rappresenta un rischio troppo grande. Marwan Barghouti, il leader di Fatah simbolo della prima e della seconda Intifada, resterà in carcere dopo aver passato già 23 anni dietro le sbarre. Malgrado le pressioni internazionali e le richieste di rilascio arrivate anche da gruppi per i diritti umani, Tel Aviv ha nuovamente escluso la sua scarcerazione.
Considerato dall’Economist “il prigioniero più importante del mondo”, da alcuni definito il “Mandela palestinese”, Barghouti è l’unico esponente della scena palestinese ritenuto in grado di colmare il vuoto di leadership lasciato da Mahmoud Abbas e di gettare le basi per un nuovo progetto nazionale. La sua figura, popolare in tutti i Territori – anche tra i sostenitori di Hamas – è vista come l’unica capace di unificare le diverse anime del movimento palestinese.
“Israele teme la capacità di Barghouti di unire il popolo palestinese dietro di lui”, ha dichiarato all’emittente turca Trt Alon Liel, ex direttore generale del ministero degli Esteri israeliano.
E i numeri sembrano confermarlo: da alcuni anni, Barghouti guida i sondaggi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza come candidato più popolare per la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Il suo nome è da tempo in cima alle liste dei detenuti che Hamas, nonostante la rivalità storica con Fatah, chiede di liberare in cambio degli ostaggi israeliani. Ma Israele ha sempre opposto un netto rifiuto, temendo che il suo rilascio possa riaccendere una leadership palestinese credibile e trasversale.
Dalla prigione di Hedarim, dove sta scontando cinque ergastoli per attacchi contro israeliani – accuse che ha sempre negato – Barghouti ha continuato a esercitare un ruolo politico. È stato tra i promotori del Documento dei Prigionieri Palestinesi (o Documento di riconciliazione nazionale), sottoscritto da esponenti di Hamas, Fatah e Jihad islamica, che invoca la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e confini basati sulle linee del 1967.
Per l’analista Ramzy Baroud, Barghouti rappresenta “una generazione di leader meno faziosa e più nazionalista”, mentre per Zaha Hassan, ricercatrice del Carnegie Endowment for International Peace, la sua figura potrebbe “fungere da ponte tra il conflitto e un futuro accordo politico con Israele”.
Nato nel 1962 a Kobar, vicino Ramallah, Barghouti fu un leader studentesco all’Università di Bir Zeit. Venne arrestato per la prima volta a 18 anni e trascorse sei anni in prigione, dove imparò l’ebraico. Espulso nel 1987, tornò in Cisgiordania nel 1993 nell’ambito degli Accordi di Oslo e divenne segretario generale di Fatah in Cisgiordania e deputato del Consiglio legislativo. In questi ruoli si distinse per la denuncia della corruzione e degli abusi del potere dell’Anp.
Durante la seconda Intifada venne accusato da Israele di aver fondato le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Catturato nel 2002 a Ramallah, dopo essere sfuggito a un attentato l’anno precedente, da allora è in carcere.
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