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L’Italia ai minimi di natalità: non bastano più nemmeno i figli degli stranieri

Nel 2024 in Italia sono nati 369.944 bambini, quasi diecimila in meno rispetto all’anno precedente (nel 2023 sono nati 379.890 bambini). Il tasso di natalità è sceso a 6,3 per mille residenti, mentre la fecondità media ha toccato 1,18 figli per donna, minimo storico assoluto. Lo rileva l’Istat nel suo ultimo report sulla natalità. Nei primi sette mesi del 2025 le nascite sono ulteriormente diminuite del 6,3%. Eppure, un dato spicca: oltre uno su cinque di quei neonati – il 21,8% – ha almeno un genitore straniero. In termini assoluti, 80.761 bambini. Senza di loro, la curva sarebbe precipitata ben sotto le 350 mila unità.

È la fotografia di un paese che si regge su un equilibrio fragile. L’apporto delle famiglie straniere ha finora attenuato il crollo della natalità italiana, ma non lo ha invertito. Nel 2010 una donna straniera residente in Italia aveva in media 2,3 figli, oggi 1,79. Le italiane si fermano a 1,11. Lo scarto, che un tempo faceva la differenza, si è ridotto a meno di un figlio. Significa che anche chi arrivava da contesti più fertili ha finito per adottare lo stesso modello di rinuncia. Un processo di “integrazione” paradossale: le famiglie straniere non imitano le abitudini italiane, ne condividono le stesse difficoltà strutturali.

La mappa racconta il resto. Nel Nord, dove la presenza straniera è più radicata, i nati con almeno un genitore straniero superano il 30%; nel Centro arrivano al 24%; nel Mezzogiorno non raggiungono il 10%. Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana sono le uniche regioni in cui la componente immigrata sostiene davvero la natalità. Ma anche lì la spinta rallenta, segno che l’Italia non è più un paese “fertile per delega”. Chi si stabilisce qui incontra gli stessi ostacoli che scoraggiano i residenti: stipendi bassi, case inaccessibili, servizi per l’infanzia scarsi o costosi. Il risultato è una convergenza verso il basso, dove italiani e stranieri finiscono per condividere la stessa aridità di prospettive.

Istat, il tasso di fecondità italiano ha superato il minimo storico del 1995

Il primo figlio arriva tardi, il secondo quasi mai

Se la natalità crolla, è perché si inceppa il primo ingranaggio. Nel 2024 i primogeniti sono stati 181.487, in calo del 2,7% rispetto al 2023; i secondi figli 133.869 (-2,9%), quelli successivi ancora meno (-1,5%). Il ciclo si interrompe all’avvio e non riparte. L’età media al primo parto è 31,9 anni: nel 1995 era 28,1. Tre anni di scarto che valgono un’intera generazione di differenza. Più tardi si comincia, più difficile è continuare. Non è una scelta di costume, ma il riflesso di un contesto che non consente programmazione. L’instabilità lavorativa, i salari compressi e l’assenza di servizi pubblici per l’infanzia spingono le coppie a rimandare, fino a quando la decisione si trasforma in rinuncia.

Il Mezzogiorno, un tempo bacino demografico, è oggi la zona più in difficoltà. Nei primi sette mesi del 2025 il calo delle nascite ha toccato il -7,2%, con punte del -10% in Sardegna e Abruzzo. Lì il ritardo nel mercato del lavoro e la carenza di strutture sociali amplificano la crisi. Ma la differenza territoriale non è più quella di una volta: anche le regioni del Nord rallentano (-5%) e il Centro non fa meglio (-7,8%). L’unico segnale positivo arriva dalle province autonome di Bolzano e Trento, dove le nascite crescono lievemente (+1,9% e +0,6%). Non a caso, sono territori con servizi per la prima infanzia diffusi e politiche familiari stabili.

In tutto il resto del paese, invece, la natalità non crolla “per caso”: viene logorata da un insieme di microostacoli quotidiani. L’età media delle madri sale a 32,6 anni, quella delle italiane a 33,1. La finestra riproduttiva utile si accorcia, e con essa la possibilità di avere un secondo figlio. Nel frattempo, la fecondità di periodo (1,18 nel 2024) e quella stimata per il 2025 (1,13) dicono che il recupero non è nemmeno all’orizzonte. La generazione delle donne nate nel 1975, che oggi ha chiuso la propria fase fertile, si ferma a 1,44 figli di media, con il 23% senza figli. È il punto di arrivo di un processo lento, ma inesorabile: l’Italia non ha smesso di fare figli da un giorno all’altro, ha solo smesso di poterlo fare.

Nascite fuori dal matrimonio e doppio cognome: il Paese cambia forma, ma non sostanza

La crisi della natalità non coincide con una crisi del concetto di famiglia: semplicemente, la famiglia italiana ha cambiato forma più in fretta di chi la racconta. Nel 2024 i nati fuori dal matrimonio sono 159.671, pari al 43,2% del totale. Quindici anni fa erano il 19,7%. È un salto culturale che non trova ancora riscontro nelle politiche pubbliche, ancora costruite intorno al modello coniugale. Il fenomeno è ormai omogeneo: il Centro guida con il 49,6%, il Nord segue con il 42,8%, il Mezzogiorno – un tempo più tradizionale – arriva al 40,3%, colmando rapidamente il divario. In Sardegna la maggioranza delle nascite (56,6%) avviene fuori dal matrimonio, nel Lazio e in Umbria siamo oltre la metà.

Anche il dato generazionale spiega la svolta: tra le madri under 25, il 61,7% dei figli nasce da genitori non sposati; tra i 25 e i 34 anni la quota è del 43,6%. Le coppie giovani, più spesso precarie, scelgono o accettano la convivenza come condizione di fatto. La formalità non è più una precondizione per diventare genitori. A cambiare è anche il modo di trasmettere l’identità familiare: nel 2024 il 6,7% dei neonati riceve il doppio cognome, in crescita di oltre quattro punti in quattro anni. Nel Centro-Nord la percentuale supera l’8%. La scelta è più frequente tra le coppie non coniugate (8,5%) e tra i primogeniti (9,2%), segno che il simbolismo dell’uguaglianza tra genitori trova terreno proprio dove il modello familiare si è già trasformato.

Il dato più interessante è sociologico, non anagrafico: le aree dove le nascite fuori dal matrimonio crescono di più non sono le più povere, ma quelle dove il mercato del lavoro femminile è più forte. Qui l’indipendenza economica consente forme di maternità meno vincolate e più flessibili, anche se sempre più isolate dal sostegno pubblico. La denatalità, in altre parole, convive con un aumento delle esperienze di genitorialità “fuori formato”. È il segno di un paese che non ha smesso di generare, ma che lo fa fuori dagli schemi per mancanza di alternative, non per scelta ideologica.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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